“Gli immigrati regolari contribuiscono a creare l’11% del Prodotto Interno Lordo, incidendo per il 10% sul totale dei lavoratori dipendenti. Ma di loro non si parla mai. Eppure, senza il loro contributo, lo Stato perderebbe ogni anno 11 miliardi di contributi fiscali e previdenziali. La gran parte degli stranieri in Italia vive quindi una vita normale, spesso segnata da un lavoro duro, al solo scopo di garantirsi la sopravvivenza e mandare qualche aiuto alla famiglia, nel Paese d’origine”. Muove da qui il programma di Rai 3 “Radici. L’altra faccia delle migrazioni” che ha scelto di indagare dal di dentro il mondo dell’immigrazione regolare in Italia, per dar voce agli stessi protagonisti e offrire una lettura completa e reale del fenomeno delle migrazioni forzate. Perché solo una rappresentazione lontana da stereotipi e pregiudizi, e priva di qualunque approccio ideologico, favorisce una comprensione efficace del fenomeno e costituisce la premessa del dialogo e dell’incontro fecondo fra chi arriva e chi accoglie. Le puntate della quinta stagione sono in preparazione: le prime sei saranno in onda a partire dal 2 giugno, il venerdì in seconda serata, e altre sei le vedremo in ottobre, la domenica alle 13. Abbiamo intervistato Davide Demichelis, autore e conduttore di Radici:
Come nasce un programma come Radici?
“Nasce da una mia esperienza personale. Faccio il giornalista da più di 25 anni e realizzo soprattutto documentari. Un po’ per passione, divertimento e interesse professionale ho avuto la fortuna di viaggiare molto, soprattutto all’estero. Ho iniziato con l’Africa e poi sono stato negli altri continenti. E così ho visto l’altra metà del mondo, quella che in Italia arriva poco, perché i media si occupano poco di esteri. Girando documentari su temi sociali, le guerre africane, natura e animali, ho avuto la possibilità di vedere il fenomeno delle migrazioni dalla parte dei Paesi da cui partono i flussi e quindi volevo raccontarlo a partire da lì”.
C’è però anche un vissuto personale che l’ha portata a maturare l’idea del programma?
“Si: vivo a Nichelino, una città della prima cintura di Torino, dove sono nato nel ’65. Ho vissuto nella mia infanzia l’immigrazione degli anni ’60 e ’70. La città in quegli anni è esplosa perché arrivavano dal sud Italia gli immigrati che venivano a lavorare alla Fiat. Allora qui abbiamo vissuto qualcosa di simile a quanto sta accadendo oggi. Forse anche per questo ho sentito il desiderio di raccontare il fenomeno da una prospettiva diversa. Il sottotitolo del programma infatti è “l’altra faccia delle migrazioni”, perché raccontiamo i Paesi di origine, le motivazioni che spingono una persona a lasciare la casa, la famiglia e la terra natale, a cui tutti comunque siamo legati”.
Sbarchi, clandestini, affondamenti e carrette del mare. E poi scafisti, traffico di esseri umani e morti, migliaia di morti in fondo al mare. E ancora emergenza, insicurezza, paura. Eppure non è solo questo l’immigrazione in Italia. C’è un’altra faccia delle migrazioni che poco conosciamo perché non ne parla quasi nessuno. Di certo non gli “influencer” o i “main stream”, ovvero gli opinion leader e i media nazionali, tv e giornali, di grande pubblico. Perché non fa notizia, non c’è clamore, e forse non fa comodo ad una certa politica.
Eppure quella regolare rappresenta la maggior fetta dell’immigrazione nel nostro Paese. E una fetta importante, perché offre un contributo non trascurabile al prodotto interno lordo nazionale. In altre parole, gli immigrati regolari contribuiscono ad accrescere la ricchezza del nostro Paese in misura significativa. Secondo IDOS si tratta di circa 5 milioni e mezzo di cittadini stranieri residenti in Italia per lo più o soggiornanti.
Esistono e sono accessibili siti come Openpolis che permettono ai cittadini di controllare direttamente i conti del proprio comune così come di chiedere dell’attività degli amministratori e dei parlamentari. Uno strumento per la partecipazione.
Siamo nel tempo della post-verità investiti da un flusso continuo di affermazioni la cui fondatezza non è sempre garantita. Nel dibattito pubblico opinioni contrastanti, senza un riferimento oggettivo, creano un indubbio disorientamento e lasciano campo aperto a partigianerie che raramente vengono smentite oltre a incattivire il clima sociale.
Segnaliamo un interessante articolo pubblicato su La Stampa due giorni fa a firma di Anna Masera. Una riflessione sulla responsabilità dei giornalisti in tempi di "fake news" e di "hate-speach", ovvero di notizie false e discorsi d'odio in Rete.
Del tutto condivisibili ci sembrano le prescrizioni del citato "Manifesto della comunicazione non ostile", una sorta di decalogo rivolto ai comunicatori, giornalisti in primis, ai politici, i docenti, gli influencer e a tutti i navigatori del web che interagiscono fra loro ed esprimono pensieri, opinioni e valutazioni in Rete, nei forum, nelle community e sulle piattaforme dei social network. Uno strumento che ci pare non solo prezioso ma da diffondere.
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