Di popoli in fuga da guerre, povertà e violenze ce ne sono tanti sul globo. E si tratta sempre di fughe drammatiche, sia che avvengano dentro i confini patri sia che costringano a migrare fuori. Pochi fra noi europei conoscono il fenomeno delle migrazioni forzate tutto interno alla Colombia, causate da un conflitto armato durato decenni. I media colombiani ne parlano, ma in modo incompleto e talvolta parziale. Anche a quelle latitudini serve un’informazione più chiara ed incisiva. Ne abbiamo parlato con Cristina Montoya, docente di Comunicazione e Intercultura all’Istituto Universitario Sophia, membro della delegazione di NetOne che si è recata in Colombia dall’8 al 23 aprile per presentare il progetto “Giornalisti e migrazioni”:
“I mass media svolgono un ruolo fondamentale nella percezione che la società – in particolare le nuove generazioni – ha della presenza di immigrati e rifugiati in Italia. Un approccio corretto e critico alla lettura delle notizie sulla presenza degli stranieri nel nostro Paese è oggi quanto mai indispensabile per riuscire a creare nei giovani una cultura dell’accoglienza e della solidarietà”
È per queste ragioni che la Fondazione Centro Astalli per i rifugiati, promossa dall’Ordine dei Gesuiti a Roma, si impegna nella formazione dei giovani fruitori dei media, dalla tv, a internet, ai giornali, con l’obiettivo di “educare al pensiero critico” per promuovere “una cittadinanza consapevole” e stimolare “a ripensare la società e i rapporti umani”. Un lavoro che il Centro porta avanti attraverso corsi e iniziative pensati in particolare per le scuole, che invitano gli studenti ad entrare nelle logiche e nelle metodologie della comunicazione.
Quando si parla di migrazioni si tende a pensare per lo più a quelle provenienti dal nord Africa e dirette verso l’Europa, o ai flussi che partono dal Medio Oriente e dai Balcani verso i paesi dell’Occidente ricco. Gente che fugge da guerre, povertà o dai mutamenti indotti dai cambiamenti climatici, costretta a lasciare la propria casa e il proprio paese.
In realtà il globo è attraversato a tutte le latitudini da fenomeni migratori fra loro anche molto diversi per il contesto in cui si svolgono, per le dimensioni dei flussi e per le ragioni che li muovono.
In Colombia, ad esempio, oltre sei milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni a causa del conflitto fra esercito, narcos e gruppi armati paramilitari che per più di 50 anni ha piagato il paese. Un conflitto da poco risolto con un accordo storico fra il governo del Presidente Juan Manuel Santos e le FARC, il gruppo guerrigliero marxista, i cui benefici tuttavia stentano a vedersi. Il perdurare dello stato di guerra e di una condizione di grave insicurezza per le popolazioni civili ha causato una massiccia migrazione tutta interna ai confini del Paese, che in alcuni casi si è diretta verso gli Stati Uniti. Una fuga non meno drammatica di quelle che vediamo raccontate sugli schermi delle nostre tv o sui giornali: sono uomini e donne chiamati “desplazados” che subiscono soprusi e violenze di ogni genere, in un paese dove non c’è certezza del rispetto dei diritti umani e dove resta alto il livello di violenza.
Proporre un metodo originale per la narrazione delle migrazioni sui media, che offra un racconto veritiero, multi-sfaccettato e costruttivo del fenomeno delle migrazioni forzate. È l’obiettivo del ciclo di incontri che NetOne promuove a livello internazionale sul tema “Giornalisti e migrazioni”, realizzati di volta in volta in città simbolo, come Atene, Budapest e Pozzallo, alle frontiere più calde o lungo i confini dove l’incontro fra popoli in viaggio e residenti si fa accoglienza ma spesso anche scontro e rifiuto dell’altro.
Un progetto che nasce a seguito dell’intensificarsi, negli ultimi anni, dell’ondata migratoria verso l’Europa da parte dei Paesi del Sud del Mediterraneo e del Medio Oriente, e dall’osservazione di come il racconto mediatico delle migrazioni fosse non di rado viziato da stereotipi e pregiudizi, da una lettura ideologica del fenomeno, spesso staccata dal contesto reale. Una narrazione che influenzava la rappresentazione delle migrazioni e degli stessi migranti presso l’opinione pubblica, alimentando sentimenti di paura e di rifiuto.
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